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Meta Land Art. Apofenie Satellitari


di Fabiola Di Maggio
(tratto dal catalogo Meta Land Art. Apofenie Satellitari)


L’esposizione Meta Land Art. Apofenie satellitari raccoglie principalmente le opere dell’ultimo reportage fotografico satellitare realizzato da Max Serradifalco nel 2016. Meta Land Art, come tutti gli altri reportage dell’artista, è una serie di fotografie prodotte con l’ausilio della piattaforma virtuale di Google Maps.
Per la realizzazione di questa serie Serradifalco ha puntato l’obiettivo del satellite sulle opere di Land Art realizzate in misura maggiore tra gli anni ‘60 e ‘80 del secolo scorso dagli artisti Robert Smithson, Nancy Holt, Michael Heizer, Alberto Burri e James Turrell (Beardsley 2006; Tiberghien 1996). Incorporando l’opera di Land Art nel suo scatto, Serradifalco crea anch’egli, come già solito fare, la sua opera di Land Art. Il doppio livello di arte di paesaggio presente nella sua fotografia consente di parlare espressamente di Meta Land Art, ovvero di una «metapicture» (Mitchell 2005), di un’«immagine ricorsiva» (Hofstadter 1984), un’opera di Land Art che contiene un’opera di Land Art. A questa “messa in opera” pirandelliana Serradifalco aggiunge l’elemento percettivo e fantasioso dell’apofenia tanto sfruttato da pittori del calibro di Leonardo da Vinci, Giuseppe Arcimboldo, Salvador Dalí, Max Ernst o Jean Dubuffet (Bois – Krauss 2003; Capuano 2011, 2012; Elkins 1996, 1999; Gamboni 2016; Gombrich 2002; Martin 2009; Michell 1979). Si tratta, cioè, della possibilità immaginativa di scorgere in forme casuali o astratte delle immagini figurative, ovvero del procedimento creativo più antico della storia dell’umanità risalente all’arte rupestre del Paleolitico superiore.
L’opera di Meta Land Art nasce proprio dall’incontro tra un segno artistico introdotto nel paesaggio (come i tubi di Nancy Holt) e le forme naturali e accidentali della terra in cui esso è stato inserito (in questo caso il deserto americano dello Utah). Da questo legame nasce la visione apofenica di Serradifalco, dove l’opera di Land Art perde il suo significato originario per acquisirne un altro nell’immagine del nuovo paesaggio immaginario.
In tal modo, opere di Land Art come i Sun Tunnels 1 si trasformano, secondo la visione dell’artista, nella costellazione a X che forma il rigonfiamento centrale della Via Lattea, e anche il suo processo di creazione e modellamento, scoperta dal telescopio orbitante della NASA WISE nel 2010 (pag. 24), dando vita all’opera opalescente e monocromatica Stellar Crossing in the Milky Way (pagg. 22-23). Un’immagine che nei suoi tratti terrestri porosi, essenziali e primari, rappresenta il fulcro della Galassia che il nostro pianeta, in connessione con l’intero universo, custodiva come il riflesso di un segreto.
Il Grande Cretto di Gibellina 2 ripreso dalla prospettiva di Serradifalco diventa per apofenia il Quadrato bianco su fondo bianco (1918) di Malevic, al quale si aggiunge, come per magia, proprio la figura fumettistica dai tratti essenziali dell’artista russo che osserva la sua creazione in modo riflessivo e concentrato, stagliati entrambi sul primo piano della fotografia satellitare Malevic. Contemplation (pagg. 28-29).
La Spiral Jetty 3 assume le sembianze di un ciondolo magico in forma di mulinello legato al collo di una celeste figura muliebre profilata da un’aura luminosa. Si tratta di una fantastica dea della Terra dalla chioma bruna che emana un soffio d’aria pura e rigeneratrice, protagonista dell’opera The Breath of the Earth (pag. 18), metafora, altresì, del bisogno reale e urgente che ha il nostro pianeta di tornare a respirare e di essere alleggerito dall’inquinamento e dall’incuria degli uomini che lo depauperano e ne deturpano la bellezza.
Il Roden Crater 4 diviene una sorta di agognata meta luminosa liberatoria, di dantesca memoria, all’interno della scena onirica di On the Way to the Light (pagg. 2-3) dove un piccolo punto lucente guida il cammino di un gruppo di esseri bronzei fantasmatici ed evanescenti che si muovono in viaggio nel buio surreale dell’Ade. Tali anime vaganti nel tetro ambiente infero, a ben vedere, sembrano suggerire il passo e la cinesi futurista di Forme uniche della continuità nello spazio (1913) di Boccioni e del Nudo che scende le scale (1912) di Duchamp.



Infine, City 5 diviene simbolo dello spazio urbano abbandonato dall’uomo in favore di un ricongiungimento con la natura selvaggia nell’opera Wilderness. Farewell to the City (pag. 26). Nell’immagine si percepisce il movimento di ragazzo colto nell’atto di voltare le spalle alla città e recarsi in terre selvagge, sconfinate, rievocando la storia di Christopher McCandless il giovane protagonista del romanzo di Jon Krakauer, Nelle terre estreme, che abbandona gli affetti per intraprendere un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, fino ad arrivare nei paesaggi sterminati, impervi e incontaminati dell’Alaska dai quali verrà riassorbito per sempre.
Con questa serie, dunque, ci si trova di fronte a fotografie creative, storie di storie e immagini dentro immagini che rievocano le sovrapposizioni di piani formali e concettuali alla maniera di Salvador Dalí, René Magritte oppure Ottavio Ocampo (Seckel 2004, 2006). Le fotografie di Meta Land Art sono, per dirla con Umberto Eco (2009), delle vere e proprie «opere aperte». Come un gioco di scatole cinesi o un “effetto matrioska”, esse offrono visioni innestate e aumentate del paesaggio. Fotografie satellitari di artefatti già famosi diventano opere a sé stanti, arricchite da un livello immaginativo-intellettuale che condensa in sé forme e significati, immagini di immagini e fantasie d’artista. Le fotografie di Meta Land Art sono delle vere e proprie reinterpretazioni compositive di immagini che dilatano la prospettiva terrestre, visuale e immaginativa in una varietà cromatica e iconica suggestiva fornita dalle stesse strutture del paesaggio catturate dall’artista.
Questi scatti sono il frutto di un’alchimia grafica e cromatica vivida in certi casi, quasi eterea, liquefatta, acquarellata in altri che, a prima vista, sbalordiscono per il loro perturbante espressionismo pittorico facendo credere allo spettatore di trovarsi di fronte dei dipinti e non delle fotografie. Forme e colori sono quelli naturali della terra che Serradifalco lascia intatti nella loro semplicità e spontaneità.
Le apofenie satellitari di Serradifalco, come il progetto Meta Land Art mostra chiaramente, segnano nuovi traguardi dell’astrazione e della figurazione, sia dal punto di vista puramente artistico relativamente all’immagine prodotta, sia da quello legato al medium tecnico che produce la visione dell’immagine, cioè la fotografia. Secondo la classificazione dei media proposta nel 1964 da Marshall McLuhan (2011), un medium è «caldo» (fotografia, radio, scrittura) quando è caratterizzato da «un’alta definizione» e richiede una limitata partecipazione da parte dell’osservatore che, possedendo tutte le informazioni, non ha bisogno di ricorrere ad altre immaginazioni o spiegazioni; un medium è «freddo» (televisione, telefono), invece, se è contraddistinto da una «bassa definizione», richiede un’elevata partecipazione da parte del fruitore che dovrà impegnarsi a immaginare ciò che non viene trasmesso, a completare o decifrare i segni confusi della comunicazione verbale o visuale. La fotografia di Max Serradifalco rivoluziona questo canone. Non si tratta di un medium caldo, dettagliato, finito, immutabile, ma di un medium freddo, sfumato, aperto, metamorfico, potenziale (Gamboni 2016) che invita lo spettatore, e ancora prima l’artista stesso, a ricorrere all’immaginazione apofenica per trovare un senso ai margini delle immagini. La Meta Land Art, come tutte le immagini apofeniche satellitari realizzate da Serradifalco, con i suoi paesaggi riconfigurati in nuovi luoghi e confini dell’immagine, è una modalità artistica surmoderna (Augé 1993) che ci mostra l’immaginazione in atto e che, soprattutto, ci invita a metterla in azione. Oltre alle cinque fotografie del reportage Meta Land art, in mostra sono presenti anche fotografie satellitari di serie precedentemente realizzate dall’artista. Si tratta delle opere di Land Art satellitare che si collegano all’immaginario astratto, frastagliato e apofenico del paesaggio. Avremo dunque scatti della serie Web Landscape Photography, ovvero viaggi virtuali che testimoniano i primi esperimenti visuali dell’artista relativi all’osservazione e alla reinterpretazione dei paesaggi naturali della terra; alcune fotografie che mettono in evidenza le analogie tra le forme della terra e certe opere appartenenti a famosi movimenti artistici del passato, come il materismo informale e l’astrattismo, appartenenti al reportage E-ART-H; e infine, diverse percezioni antropomorfe e biomorfe della serie Earth Portrait.
Il percorso espositivo proposto è un viaggio suggestivo e stimolante che ha un duplice scopo. Da un lato, mettere in evidenza i legami stilistici di forma e contenuto che le serie passate di Serradifalco intrattengono con il nuovo reportage, e al contempo mostrarne le evoluzioni e le strade intraprese dall’artista recentemente. Dall’altro, far conoscere al pubblico una pagina inedita e in divenire della storia della fotografia di paesaggio. Un’evoluzione della fotografia che, grazie alle nuove tecnologie, Max Serradifalco sta portando avanti e concretizzando con prospettive d’avanguardia e nuovi innesti che Nadar non poteva immaginare.



NOTE


1 I Sun Tunnels sono quattro grandi binocoli solari di calcestruzzo ideati da Nancy Holt e installati nel Great Bassin Desert dello Utah, tra il 1973 e il 1976, secondo uno schema a X che li allinea all’angolo in cui sorge e tramonta il sole nei giorni del solstizio d’estate e d’inverno. Sulla superficie di ciascun tubo vi sono delle cavità di diversa misura in base alla magnitudine delle stelle che raffigurano. Ogni serie di fori rappresenta una costellazione diversa, e la luce del sole, che in varie ore del giorno attraversa i buchi, produce effetti eterogenei proiettando delle morfologie cangianti sulla parte bassa dei tunnel.


2 Il Grande Cretto di Gibellina è un’opera ambientale cominciata da Alberto Burri nel 1985 e completata nel 2015 sul progetto originale di Burri. Si tratta di un’estesa colata di cemento bianco, come fosse un sudario o una coltre di lava bianca, che ricopre le macerie della cittadina siciliana, distrutta nel 1968 a causa del terremoto che colpì l’area del Belice. Burri ha voluto riproporre una struttura viaria immaginaria, che parzialmente ripercorre l’impianto urbanistico di Gibellina Vecchia, realizzando un monumento della morte e della memoria dai risvolti tragici ed esistenziali tra i più grandi di ogni tempo.


3 La Spiral Jetty è stata realizzata da Robert Smithson nel 1970 sulle spiagge desertiche del Great Salt Lake nello Utah. Si tratta di una passerella di blocchi di basalto, terra e cristalli di sale accumulati e prelevati dalla collina vicina, che si estende a forma di spirale nell’acqua rossa del lago. La forma elicoidale realizzata dall’artista è frutto della realtà fenomenologica e antropologica del luogo, derivante, cioè, dall’aspetto fisico del lago e dalle tradizioni mitologiche dei coloni mormoni, i quali credevano che il bacino fosse una specie di mostro senza fondo collegato all’Oceano Pacifico da un grande canale sotterraneo, le cui correnti provocavano gorghi enormi al centro del lago. Negli anni la spirale è stata coperta da un innalzamento del livello del lago ed è visibile solo dall’alto di un mezzo aviatorio.


4 Il Roden Crater è un’opera di Land Art progettata da James Turrel nel lontano 1977 e situata nella zona centrale del Painted Desert in Arizona. Completato e aperto al pubblico solo nel 2016, il Roden Crater è l’esito di un lungo processo di progettazione, modellazione e scavo del corpo interno di un cono vulcanico spento. L’opera consiste in un insieme di camere ipogee che fungono insieme da osservatori astronomici a occhio nudo grazie ai quali è possibile per l’osservatore interagire visivamente con le varie luci solari, stellari e lunari, e da spazi d’arte all’interno dei quali Turrell espone l’energia visionaria delle sue idee spaziali, percettive e luministiche nella limpida visibilità di un ambiente brullo.


5 La City è un’opera iniziata da Michael Heizer nel 1972, tuttora incompiuta e non accessibile al pubblico. Si tratta di un complesso colossale sito nel deserto di Lincoln County, nel Nevada, di cui l’artista ha eretto e portato a termine ad oggi solo le prime due delle quattro strutture previste: Complex One (1974) e Complex Two (1988). Dalle poche immagini a disposizione City si presenta come una compagine architettonica di strutture realizzate con terra, cemento e ferro che, per la loro essenzialità compositiva e per il loro valore simbolico, richiamano la maestosità e l’austerità dei monumenti delle grandi civiltà del passato come quelle precolombiane degli Inca, dei Maya e degli Aztechi.